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Mafie a Nordest. Felice Maniero & company, come passare da “Mala” a “Mafia”. #CementoArricchito

La Banda Maniero è acqua passata e Felicetto, dopo aver fatto cassa da criminale, continua a far cassa da imprenditore alle prese – guarda caso – con acqua passata, sia pure attraverso filtri che la rendono più gradevole.  Suoi vecchi seguaci continuano però a far rapine in grande stile ed hanno persino tentato di ricostituire l’organizzazione e di eliminare funzionari di polizia. Ma la “Mala del Brenta” diventò “Mafia del Brenta” per il contagio dei soggiornanti obbligati o per le proprie potenzialità criminali che, in una zona caratterizzata da malavita endemica, comportarono piuttosto un’ “attrazione fatale” per interessi reciproci? Di certo si sa c’è che con i boss in trasferta non ci fu “conflitto ambientale” e che in Veneto – come ha rilevato la Commissione parlamentare antimafia – la criminalità organizzata ha fatto «parte a sé» con base di partenza prettamente locale. Per il resto, è giusto parlare delle vicende più recenti soltanto in termini di infiltrazioni in un tessuto economico sano? Qui «le mafie sono arrivate perché qualcuno le ha cercate e le ha chiamate» sostengono Ugo Dinello, Luana De Francisco e Giampiero Rossi, autori di ‘Mafia a Nord-Est,’ il libro inchiesta che nel commento dei quotidiani del ‘Gruppo Espresso Repubblica’ «serve a svelare una realtà che è ben diversa, in cui molti mafiosi si vedono inseguiti, prima che da poliziotti e carabinieri, da frotte di imprenditori che vogliono entrare in affari con loro».

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0 ENZO NOVARA Favano MIGLIORESu questi argomenti abbiamo fatto una lunga conversazione con il professor Enzo Guidotto, presidente dell’ “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”, autore di libri sull’argomento, consulente della Commissione parlamentare antimafia in due passate legislature ed attualmente membro di un gruppo di lavoro del MIUR che si occupa si iniziative sulla legalità nelle scuole.

 

CONTAGIO O IMITAZIONE DEI BOSS IN SOGGIORNO OBBLIGATO?

Lei, siciliano, vive in Veneto da tanto tempo e nel libro ‘Il Bandito Felice Maniero’ Maurizio Dianese ha scritto che è «un professore di Castelfranco Veneto che da anni studia il fenomeno della mafia in trasferta». Continua a seguire certi “movimenti”?

Certamente! Anche in qualità di consulente della Commissione antimafia dal 2003 al 2008. Nel 2006, aggregato al comitato di deputati e senatori che  condusse l’inchiesta nelle regioni del Centronord, curai la relazione sul Veneto, pubblicata negli atti parlamentari ma letta da pochi. Ma il libro che Lei cita è del 1995 e Dianese si riferiva ai soggiornanti obbligati, con particolare riguardo a quelli che furono trapiantati dallo Stato in Riviera del Brenta e dintorni.

E che contagiarono la “mala” locale, come si sente dire… 

Contagio? Francamente sono sempre stato convinto che, anche  se non ci fossero stati loro, la Banda Maniero l’escalation l’avrebbe fatta lo stesso: il salto di qualità fu indubbiamente agevolato, favorito o accelerato da quelle presenze, ma secondo me, i fattori che hanno influito nel passaggio da “mala” in “mafia” vanno ricercati piuttosto nella situazione ambientale della Riviera del Brenta e del Piovese, zona caratterizzata da malavita endemica: tradizionalmente presente, diffusa e suscettibile di ulteriori sviluppi attraverso l’adattamento al mutare delle situazioni, sfruttando le occasioni favorevoli che andavano manifestandosi.

È in questa cornice che vanno inquadrate le potenzialità criminali dei clan locali con tendenza alla collaborazione e alla ricerca di un punto di riferimento … “autorevole” e l’emergere della figura di Felice Maniero ritenuto, per chi l’ha conosciuto bene, un personaggio di intelligenza superiore alla media e di spregiudicatezza non comune, caratteristiche che lo fecero diventare “capo dei capi”. Tutto questo era già evidente prima dell’allacciamento dei rapporti  con i più potenti boss arrivati dal Sud.

Una Sua opinione personale o qualcosa di più?

Lo sostengono anche Ugo Dinello, Luana De Francisco e Giampiero Rossi, autori di Mafia a Nord-Est, il recentissimo libro-inchiesta che andrebbe fatto studiare nelle scuole superiori in base alle vigenti disposizioni ministeriali perchè smonta le ipocrisie che circolano da decenni nell’opinione pubblica e le versioni falsate fornite ad arte da certi settori politici per dare ad intendere che lo sporco, il marcio, il male viene sempre e solo da fuori del territorio della nostra regione, dove tutto è sempre stato chiaro, trasparente, cristallino, pulito: il loro vero scopo è però quello di mieter consensi elettorali nella gente meno informata speculando sull’orgoglio regionalistico assai diffuso in Veneto. Questo tipo di atteggiamento l’ho notato anche in situazioni emerse più recentemente.

Come si formò l’organizzazione della quale stiamo parlando?

La graduale aggregazione – non priva di contrasti – dei capi dei vari gruppi attorno a un leader carismatico fu un processo naturale, spontaneo, conveniente, così come naturale e spontaneo perché conveniente fu per la banda l’allacciamento dei rapporti con i soggiornanti obbligati. Ma, ripeto, anche senza di loro, quel che è avvenuto si sarebbe comunque verificato: l’escalation del sodalizio criminale da “mala” a “mafia”  sarebbe avvenuta lo stesso andando altrove alla ricerca di collaborazioni come quelle avute dai soggiornanti obbligati ‘in loco’.

Controprova di quello che Lei sostiene?

Basta considerare che nelle altre regioni del Centronord, dove per quantità e qualità i “confinati” inquinarono di più ed i solchi tracciati sono ancora palpabili,  non  è mai nata un’ organizzazione autoctona come quella che si sviluppò qui in Veneto in un certo periodo.

Ma questa versione è suffragata da fonti, diciamo, ufficiali? 

Certamente. Le cito qualche frase della relazione del  Gruppo di lavoro della Commissione parlamentare antimafia che nel 1993 condusse  l’inchiesta nel Centronord attraverso l’audizione dei vertici regionali e provinciali delle forze dell’ordine, della magistratura, delle associazioni delle categorie produttive e dei sindacati: «l’indagine svolta conduce al convincimento dell’esistenza di una vastissima ramificazione di forme varie di criminalità organizzata di tipo mafioso, praticamente in tutte le regioni d’Italia. Non c’è praticamente una delle aree considerate che vada esente da fenomeni di insediamento di tipo mafioso o di infiltrazioni dello stesso tipo nel tessuto economico e nel mondo degli affari. Che poi vi siano forti differenze nell’entità del fenomeno nelle singole aree, è del tutto pacifico».

E questa differenza di entità riguardava anche il Veneto?

Non anche! Soprattutto il Veneto! Qui si sviluppò una situazione piuttosto singolare, unica. In tal senso i parlamentari della Commissione furono molto chiari: «il Veneto fa in qualche modo parte a sé, non già perché sia esente dai fenomeni e perfino da alcune intense forme di controllo del territorio, ma perché l’associazione di tipo mafioso si collega, con connotati peculiari, ad insediamenti di struttura organizzativa ed origine più specificamente locale, anche se poi tutto si è intrecciato e si intreccia in modo talora inestricabile».

Gli insediamenti erano quelli della zona del Brenta e del Piovese?

Su questo la relazione non lascia spazio ai dubbi: la criminalità organizzata locale «ha cominciato a segnare una significativa presenza nel Veneto intorno agli anni Sessanta in concomitanza col sorgere dei primi insediamenti industriali e commerciali nell’area geografica sita tra le provincie di Venezia e Padova e delimitata dalla Riviera del Brenta e dal Piovese» che in precedenza «contava solo attività agricole ed artigianali» e «la conseguente fioritura economica ed il mutato tessuto sociale», per la stessa, «hanno rappresentato motivi di interesse».

La relazione è datata 1994  e – per quel che ci riguarda – contiene una constatazione illuminante: «può affermarsi» che in quell’area geografica la criminalità organizzata, anche «allo stato attuale, presenta una spiccata autonomia rispetto alle altre organizzazioni».

E a proposito dei soggiornanti obbligati in Veneto cosa c’è scritto?

Ecco qua: nella relazione si legge che a un certo punto, «alcuni soggiornanti obbligati di elevato spessore delinquenziale si insediarono nel Padovano e nel Veneziano e dettero il via alla cosiddetta seconda fase della criminalità veneta caratterizzata da una organizzazione gerarchizzata, strutturata per clan, e per “unita operative” fortemente professionalizzate e dotata di collegamenti con altri gruppi criminali della regione, del territorio nazionale ed estero».

Stando così le cose – fu la conclusione del Gruppo di lavoro della Commissione antimafia – si può affermare che in Veneto «la base di partenza della criminalità organizzata è locale» e «giunge a livelli particolarmente elevati soprattutto nella zona del Brenta, nella quale diventa esponente di maggior spicco il veneziano Felice Maniero». In quel contesto, i “confinati” cercarono di inserirsi e riuscirono «progressivamente a suggerire prima e cercare di imporre poi, il modello mafioso». Ma, «data la forza originaria dell’organizzazione locale», l’imposizione non produsse «risultati conclusivi».  Ci furono invece «evidenti intese, fino a fenomeni di alleanza e di quasi compenetrazione». Prova ne era il fatto il processo con 110 imputati, all’epoca in corso a Venezia,  era «composto di delinquenti locali, guidati dal Maniero e di mafiosi di spicco, in prevalenza di origine siciliana» ritenuti responsabili di «reati della tipologia tipica della criminalità organizzata: rapine, omicidi, traffici di stupefacenti e di armi, associazione per delinquere di stampo mafioso e così via. Ma dagli atti del voluminosissimo risulta un campionario estesissimo, che comprende anche operazioni di riciclaggio, estorsione ed altro».

Il reato più grave era quello dell’associazione di stampo mafioso, previsto dall’articolo 416bis del Codice Penale. Ma Felicetto e company non erano affiliati a organizzazioni mafiose…

Infatti, la legge sull’associazione di tipo mafioso sulla quale si sono basate le sentenze di condanna di Maniero e di tanti suoi seguaci si applica in relazione ai comportamenti assunti dagli inquisiti, non per la loro affiliazione a qualcuna delle tradizionali organizzazioni del Sud o per la loro collaborazione – che comunque può esserci – con appartenenti alle stesse.

D’altra parte, proprio qui in Veneto, condanne in base alla stessa legge sono state inflitte qualche anno fa anche a Mario Crisci e company, la cricca di personaggi campani in combutta con soggetti veneti ‘doc’ – tra i quali un imprenditore, un commercialista ed un ex poliziotto – che, attraverso la società finanziaria ‘Aspide’ con sede nel Padovano, svolgevano attività di recupero crediti e di concessione di prestiti e fornivano altri… “servizi” esercitando intimidazioni, minacce e violenze e dando ad intendere di essere camorristi a tutti gli effetti per incutere maggior paura. Ma non erano né affiliati alla Camorra, nè tanto meno si può dire che avessero rapporti di dipendenza o di collaborazione sistematica e continuativa con camorristi per il soddisfacimento degli interessi di questi ultimi: sono stati condannati perché avevano seguito il “metodo” camorristico o di tipo mafioso che sir si voglia, indicato nell’articolo 416bis del Codice Penale.

Chiaro questo discorso. Ma come mai tanti continuano a parlare di “mala” e non di “mafia” del Brenta? E, in tutti i casi, se le cose sono state così chiare tanto tempo fa, addirittura anche prima dei rilievi della Commissione antimafia, perché le attività dei  soggiornanti obbligati, in Veneto e altrove, non furono bloccate in tempo utile da chi di dovere? Forze dell’ordine e magistrati vedevano, non vedevano o facevano finta di non sapere?

Carabinieri, polizia, giudici? Macchè! Gli inquirenti usano le armi messe a disposizione da chi fa le leggi: leggi che fa il Parlamento e che a volte, a un certo punto, si rivelano controproducenti ma non vengono cambiate. Per questo il discorso andrebbe inquadrato in un contesto più ampio, ma soprattutto privo di quei preconcetti, pregiudizi e luoghi comuni che tanti continuano a dimostrare in analisi che mi sembrano piuttosto … campanilistiche.

Inquadriamolo pure con calma per far capire una volta per tutte a chi legge come sono andate le cose….

Si, appunto, con calma, ma sempre con riferimento a valutazioni di autorevoli fonti ufficiali, perché tanti, purtroppo, esprimono soltanto opinioni spesso campate in aria che risentono di un certo orgoglio regionalistico che sconfina spesso in quel “leghismo psicologico” che porta l’opinione pubblica fuori strada.

Continua