“Se pianti un ramo, cresce una pianta”
il Corano
“Cambiano i venti, si riduce la neve, la fauna marina è a rischio, e ancora ci decantano il pollice opponibile”
Lercio
Orsi polari impagliati. Qui, sulla costa che guarda verso il mar Artico dell’Islanda dove si gela anche in estate, tutti i musei ne espongono uno. In quest’isola civile che è riuscita a far arrestare i suoi banchieri, ogni “grande” città (200 o addirittura anche 250 abitanti!) ha il suo bravo museo. Non hanno niente da esporre, poveretti!, se non vecchi arnesi per la pesca o coperte tarlate, ma l’orso bianco impagliato con la dentatura feroce non manca mai. Son tutte new entry dell’ultimo ventennio. Non che in Islanda ci siano gli orsi, eh? Son venuti tutti dal polo nord a cavallo di un iceberg. Il bestione gironzolava per la banchisa artica in cerca di qualche pesce per riempirsi la pancia quando – patatrack – un pezzo di pack grande come tutta Venezia, si è staccato dalla banchisa e se ne è andato per i fatti suoi con lui sopra.
Trascinato verso sud, sopra quella traballante isoletta di ghiaccio che rimpiccioliva di minuto in minuto, il bestio è approdato – incazzato ed affamato come solo un orso polare sa esserlo – sulle coste islandesi dove è stato immediatamente preso a fucilate dai villici locali. Quindi impagliato e sistemato a far bella mostra di sé su un bel museo locale, moderno, interattivo e con tanto di “spazio bimbi”. L’ho già detto che è gente civile, no?
Sì, va ben: povero orso. Ma povero anche l’islandese che incappa nell’orso senza il suo fucile.
Dall’altra parte del mondo, ai pinguini le cose vanno meglio. Sette anni fa, ha fatto il giro del mondo la notizia di una quarantina di pinguini della Patagonia che si son fatti più di 3 mila chilometri a nuoto per andare ad approdare ad Ipanema. Non che la loro intenzione fosse quella di andare in vacanza a Rio per farsi una caipirinha e salire in teleferica sul Pão de Açúcar. Quegli elegantoni in frac si son fatti fottere da una corrente oceanica che da una milionata di anni li portava dalle coste della Terra del Fuoco all’Antartide ma che, nell’ultimo decennio, ha deviato verso le assolate spiagge brasiliane.
Ai pinguini è andata meglio che agli orsi. Salvati dai surfisti, ingozzati con aringhe e sardine dai bagnanti, quindi rimpatriati a furor di popolo in terre più adatte alla loro gelida costituzione.
Pinguini senza bussola. Orsi accolti a fucilate. E’ tutta qua la questione sui cambiamenti climatici? No. Spiace per i pinguini. Spiace ancora di più per gli orsi. Ma quello dei cambiamenti climatici è un problemaccio che va ben oltre le pur pittoresche conseguenze come queste che ho raccontato dei pinguini e degli orsi o del fatto che, se va avanti così, resteremo senza cacao per farci la cioccolata!
Da quando ha cominciata la rivoluzione industriale (secondo alcuni addirittura con la nascita dell’agricoltura. ma in ogni modo la tendenza ha subito una fortissima impennata nell’ultimo secolo), l’uomo ha avviato un sistematico processo, una sorta di esperimento in stile mad doctor, che non era mai stato fatto prima – e che non potrà essere ripetuto in un prossimo futuro! -: prelevare tutto il combustibile fossile presente sulla terra e travasarlo nell’atmosfera, alterando tutti gli equilibri che avevano permesso la nascita della vita sul pianeta. Vien da dire: e pretendevamo che non succedesse nulla?
Una cosa da pazzi, a ragionarci adesso, e che investe non solo la questione della sopravvivenza dell’umanità ma anche di tutte le altre specie, animali e vegetali, che hanno avuto la sfortuna di svilupparsi in un mondo dove era presente il virus homo sapiens.
Un processo, questo dell’uso e abuso di risorse non rinnovabili, che per forza di cose è a scadenza. Nessuno può farci nulla. Solo gli economisti sono talmente coglioni da credere che in un sistema limitato come è la terra, si possa avviare uno sviluppo illimitato e, per di più, basato su risorse finite.
Che le cose cambieranno quindi, è sicuro. Resta da vedere in che condizioni lasceremo la terra alle future generazioni. Soprattutto, resta de decidere come (e se) governeremo questo cambiamento.
E’ su questo capitolo che va inserita la questione della democrazia climatica. Democrazia che non vuol dire fare quello si vuole, certamente, ma che non significa neppure delegare ogni decisione alla maggioranza. Democrazia, intendo, come regole da seguire. Dobbiamo scrivere una sorta di Costituzione terrestre per il clima. Oppure, se preferite, ogni singola Costituzione di ogni singolo Paese dovrebbe avere un articolo 0 che recita pressapoco: quando si scrive una legge o si progetta qualsiasi cosa, è necessario tener conto delle inviolabili leggi fisiche che regolano l’ambiente. Ci vogliono paletti precisi su quello che si può fare e quello che non si può più fare. Questo è un campo che sposa politica e scienza ma lascia a casa l’economia così come l’abbiamo intesa sino ad oggi.
La democrazia climatica quindi è una questione totalizzante, perché investe, stravolge e cambia i nostri primitivi punti di vista su tutte le questioni aperte dall’umanità nel suo cammino. Saperne di più, informarci, studiare, quindi, sono passi che non possiamo esimerci dal fare. Questo è il motivo per il quale, come EcoMagazine, abbiamo lanciato la scuola #ClimateChaos.
Anche soltanto nel buttare giù la lista dei relatori da invitare alle lezioni, abbiamo subito constatato come qualsiasi problema che abbiamo affrontato come attivisti, dalle migrazioni al lavoro, dai beni comuni alla democrazia dal basso, possa essere riletto sotto la lente dei Cambiamenti Climatici. Un esempio per tutti. Le Grandi Navi.
Potrei elencare perlomeno un ventina di motivi per i quali questi condomini galleggianti devono starsene fuori dalla laguna. La democrazia climatica semplifica il problema perché ti spiega, con la massima coerenza scientifica, che non è più tempo di gigantismi. Il futuro del turismo non passa sui ponti lustrati a specchio di questi centri commerciali del divertimento idiota. L’inquinamento che producono, il consumo energetico, la loro stessa “filosofia” dell’intrattenimento, non è compatibile con le necessità della terra. Fuori quindi le Grandi Navi, non solo dalla laguna, ma dal mondo.
La questione, a questo punto, sta tutta nel far entrare questo concetto nelle zucche di politici ignoranti (per non dir di peggio) o di arraffatori di beni pubblici abituati a programmare, ragionare e far di conto in uno spazio temporale che non si allarga mai oltre il decennio. In questo atomo di tempo, i cambiamenti climatici, per loro natura epocali, non sono una variabile cui tener conto. Anzi, i disastri, come ha spiegato Naomi Klein, rappresentano solo altre occasioni di “sviluppo”. Se le statistiche dicono che nei prossimi cinque anni ci saranno più uragani… investiamo nelle imprese immobiliari! Se l’acqua comincerà a scarseggiare, privatizziamola! Ma queste non sono soluzioni.
Tutto il contrario.
E’ su questo punto che si aprono spazi per i movimenti e per l’attivismo politico che non si è adagiato in partecipazione alla cosa pubblica basata esclusivamente sul voto e sulla rappresentanza. Le Costituzioni, lo sappiamo bene, nascono solo dopo le rivoluzioni. Le Costituzioni non ce le ha mai regalate nessuno. Sempre, abbiamo dovuto conquistarcele sulle barricate. Così dovrà essere anche per la Costituzione climatica.