Pfas, il tribunale dirà se viene prima la salute o il profitto

Il 21 ottobre inizia il processo a 9 ex dirigenti della Miteni per l’inquinamento dell’acqua, che a Verona interessa i comuni di Albaredo D’Adige, Arcole, Bevilacqua, Bonavigo, Boschi Sant’Anna, Cologna Veneta, Legnago, Minerbe, Pressana, Roveredo di Guà, Terrazzo, Veronella e Zimella

di Annalisa Mancini –  Il più grave inquinamento delle acque della storia italiana: manca poco all’udienza preliminare che il prossimo 21 ottobre  a Vicenza porterà in aula 9 ex dirigenti aziendali dell’azienda Miteni, accusati di avvelenamento delle acque e disastro innominato per aver sversato nel torrente Poscola sostanze pericolose per la salute dell’uomo e dell’ambiente e non aver fatto nulla per evitarlo.

PFAS è il nome di quelle sostanze e l’acqua il loro innocente mezzo di trasporto: dal torrente vicentino Poscola, l’acqua è finita nelle falde acquifere e poi nel sangue di decine di migliaia di veronesi, vicentini e padovani. 350.000 persone vivono nelle zone interessate dall’inquinamento da PFAS, composti chimici utilizzati per impermeabilizzare vestiti, scarpe, stoviglie, carta-forno ma anche per la produzione di pesticidi.

Il processo penale a carico degli ex manager getta ombre lunghe anche sull’operato di alcuni enti e istituzioni. Ne sono convinte soprattutto le agguerrite Mamme No PFAS, sicure che “chi doveva controllare, non abbia controllato…” ma anche gli ambientalisti di Legambiente come Piergiorgio Boscagin, che allarmato dai valori altissimi di contaminazione tra le famiglie di agricoltori cerca di chiedere una soluzione per la questione dei pozzi privati esclusi dal controllo sanitario spesso perché non censiti.

4 anni dopo la conferma di Arpav dell’inquinamento da PFAS e la successiva istallazione di filtri a carbone attivo per rendere l’acqua di nuovo potabile (2013), nel 2017 sono 95.000 i residenti di 30 comuni veronesi, vicentini e padovani che cominciano a ricevere a casa l’invito a sottoporsi al cosiddetto screening, il biomonitaraggio condotto da Regione Venetoattraverso le ULSS locali per verificare quanti PFAS abbiano bevuto e mangiato negli ultimi 40 anni. Per circa il 60% dei soggetti fino ad oggi sottoposti a screening, nati tra il 1951 e il 2002, è stato verificato un valore troppo alto di PFAS nel sangue ma soprattutto anomalie nel funzionamento di organi o ghiandole e a loro è riservato l’accesso al secondo livello del Piano di Sorveglianza Sanitaria istituito da Regione Veneto. Dal 2018, lo screening è stato ampliato anche ai nati tra il 2003 e il 2014, bambini che oggi hanno tra i 5 e i 16 anni. Nel veronese i Comuni facenti parte della zona rossa cioè della zona di massima esposizione sanitaria, sono Albaredo D’Adige, Arcole, Bevilacqua, Bonavigo, Boschi Sant’Anna, Cologna Veneta, Legnago, Minerbe, Pressana, Roveredo di Guà, Terrazzo, Veronella e Zimella.

Perché? Se i miei valori di PFAS sono alti, vuol dire che sono ammalato? L’allarme avvelenamento è stato lanciato molto prima della dichiarazione di emergenza ambientale da parte del Consiglio dei Ministri (2018) e dell’apposizione dei primi filtri a carbone attivo in grado di trattenere i PFAS. Nel 2006 è la stessa presidenza del Consiglio dei ministri con il suo Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie a mettere nero su bianco un documento sulla “Sorveglianza dell’esposizione a interferenti endocrini”, indicando puntualmente Pfos e Pfoa aventi “effetti neurocomportamentali, probabile interferenza con asse ipotalamo-ipofisi, tiroide” e presenti nell’ambiente attraverso la “produzione di polimeri (es. rivestimento padelle antiaderenti e abbigliamento sportivo, Goretex®), additivi di collanti, cosmetici, insetticidi.”.

Ed è dallo stesso Piano di Sorveglianza di Regione Veneto che risulta una maggiore incidenza (“modesta ma significativa”) di malattie cardiovascolari, ipercolesterolemia, ipertrigliceridemie, mortalità per cardiopatie ischemiche, per malattie cerebrovascolari e, nelle donne, per diabete. Già nel 2014, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) aveva classificato il Pfoa come possibile cancerogeno per gli esseri umani e anche per questo l’organizzazione ISDE Medici per l’Ambiente chiede maggiore trasparenza sui dati raccolti, temendo una sottovalutazione dei rischi reali da parte delle autorità: proprio ISDE insieme all’Ente Nazionale ENEA hanno esaminato le cause di morte dal 1980 al 2010 in una popolazione di circa 150.000 persone residenti nei comuni i cui acquedotti, nell’estate del 2013 contenevano PFAS in concentrazioni superiori ai limiti. Rispetto a una popolazione di controllo della stessa regione non esposta a PFAS con l’acqua potabile, ISDE ha osservato un eccesso “statisticamente significativo” del rischio relativo di morte da ogni causa. “Per quanto riguarda le cause di morte specifiche, nella popolazione contaminata rispetto ai controlli c’era anche un eccesso statisticamente significativo per: diabete, malattie cerebrovascolari, infarto del miocardio e malattie di Alzheimer.” Nelle donne, ISDE e ENEA hanno rilevato un rischio superiore per cancro al seno, cancro dei reni e malattia di Parkinson.

Ma Regione Veneto non ci sta e accusa il dottor Vincenzo Cordiano – presidente di Medici per l’Ambiente Veneto – di allarmismo, garantendo approfondimenti e pubblicizzazione dei dati non appena disponibili. Di fatto, a giugno la Giunta Regionale del Veneto ha dato incarico all’endocrinologo Carlo Foresta, direttore di Andrologia e Medicina dell’Azienda Ospedaliera di Padova, per coordinare progetti e valutare metodiche di riduzione dei PFAS nel corpo umano (BUR n. 59 del 4 giugno 2019). Lo stesso professor Foresta che durante il 34esimo Convegno di Medicina Riproduttiva a Abano Terme lo scorso febbraio 2019 aveva dichiarato che i PFAS alterano la funzione dell’utero interagendo col progesterone e bloccano i meccanismi che regolano il ciclo mestruale, l’annidamento dell’embrione e il decorso della gravidanza. Inoltre, quello studio aveva evidenziato un ritardo della comparsa delle prime mestruazioni nelle ragazze residenti nella cosiddetta zona rossa cioè quella ritenuta più colpita dall’avvelenamento.

«Non se salvemo…», sospira un’anziana nonna di Cerea, comune escluso dalla lista di quelli contaminati, ma preoccupata per i tre nipoti che frequentano le scuole di Legnago. I filtri ci sono e i dirigenti scolastici garantiscono che gli alunni possono di nuovo bere l’acqua “del sindaco” ma le Mamme-No-PFAS hanno ancora paura: «Non ci fidiamo più. Cuciniamo usando l’acqua minerale della bottiglie e al supermercato scegliere quali uova comperare è diventato un dramma». Sui pieghevoli informativi delle ULSS i PFAS sono elencati come il quinto fattore di rischio di malattie croniche, insieme a fumo, sedentarietà, alimentazione scorrette e abuso di bevande alcoliche, «come se avere i PFAS nel sangue fosse una scelta libera al pari di accendersi una sigaretta!», ribatte Michela Zamboni, Mamma-No-PFAS veronese. E con questa ratio pare siano avvenute alcune interviste pre-screening, come quelle ai figli della legnaghese Claudia Mazzasette, che praticano sport, si alimentano correttamente e non fumano ma il cui stile di vita viene definito “migliorabile” nella lettera rilasciata dal responsabile del Centro Unico Screening in cui si conclude: […] «Come può vedere, non tutte le rilevazioni effettuate rientrano nella normalità, inoltre è presente un’alterazione del livello ematico dei PFAS […]». Una conclusione sibillina, secondo le Mamme, che pare spostare la questione inquinamento in una zona grigia, tra fatalità e scelta personale.

Adesso che ci sono i filtri, posso star tranquillo, no? Sono in molti a non sentirsi rassicurati da quella che viene definita la tecnologia più efficace per filtrare i PFAS, in attesa della costruzione di nuove condotte: i filtri a carbone attivo granulare vergine da noce di cocco, ad oggi applicati da Acque Veronesi agli impianti di Madonna di Lonigo che attingono dalla falda acquifera di Almisano e forniscono acqua ai comuni di Albaredo d’Adige (3.672 persone servite dall’acquedotto), Arcole (4.855), Bevilacqua (1.682), Bonavigo (1.726), Boschi Sant’Anna (1.114), Cologna Veneta (7.663), Legnago (18.536), Minerbe (4.226), Pressana (2.315), Roveredo di Guà (1.260), Terrazzo (530), Veronella (4.605), Zimella(4.179), Villa Bartolomea (53). La garanzia della funzione “spugna” di questi filtri la si può leggere nei report di analisi della acque di Arpa Veneto, che ora segnalano PFAS a livello zero tecnico (inferiore a 5 ng/l).

«I filtri funzionano per l’acqua che arriva nelle case, pescando ad oggi da una falda inquinata. Quindi di fatto l’acqua dei nostri rubinetti è acqua inquinata filtrata; nell’acqua filtrata potrebbero esserci anche altre sostanze oltre alle 14 monitorate, PFAS o altre, che però nessuno sta cercando. Noi non ci fidiamo più!», ci racconta Michela Zamboni. Effettivamente nel maggio 2019 il tavolo tecnico del ministro dell’Ambiente con Regione e Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) non prevedeva solo la discussione sui limiti legali agli scarichi e sulle modalità di trattamento delle acque reflue (ad oggi inesistenti in Italia e introdotti solamente da Regione Veneto dopo i rilievi del 2013): nel Po sono stati trovate altre sostanze PFAS di nuova generazione come il C6O4, che insieme al GenX stanno diventando il nuovo nome di un inquinamento che evidentemente va oltre il caso Miteni e ben oltre i confini veronesi, vicentini e veneti. Sostanze nuove, per cui non esiste una metodologia analitica e per cui lo stesso Istituto Ispra ha dichiarato la necessità di costituire un osservatorio sui PFAS e su tutte le sostanze chimiche emergenti, “in modo da poter intercettare la loro presenza nell’ambiente in maniera tempestiva”.

I PFAS sono tanti e siccome l’inquinamento ha riguardato anche le acque profonde di falda nonché quelle superficiali, acque che vengono utilizzate per l’abbeverata e per l’irrigazione delle produzioni agricole, non tutti si sentono tranquilli. Acque che salgono e scendono, assorbono e restituiscono tutti i tipi di sostanze dai terreni, come spiega la consulente ambientale Marina Lecis alla trasmissione televisiva PresaDiretta che lo scorso 2 settembre si è occupata dell’avvelenamento da PFAS in Veneto. Acque che si muovono, prodotti che si comprano, si vendono, si esportano. «La questione riguarda soprattutto i Comuni come Pressana e Cologna Veneta, che i PFAS se li sono trovati in falda. Noi a Villa Bartolomea possiamo considerarci fortunati perché siamo stati l’ultimo comune a collegarsi all’acquedotto. Inoltre, la verifica effettuata sui pozzi di responsabilità comunale non ha rilevato presenza di PFAS. Non abbiamo cambiato le nostre abitudini alimentari ma c’è in effetti qualche dubbio su frutta e verdura che vengono dalle zone più contaminate», racconta l’assessore Ecologia e Ambiente del Comune di Villa Bartolomea Luca Pradella.

Centrale inoltre è la questione del collettore consortile A.RI.C.A., costruito nel 1985 con l’intento di disinquinare dai reflui industriali il bacino del Gorzone, e che sversa nel fiume Fratta a Cologna Veneta l’acqua raccolta dai 5 depuratori dalla zona conciaria della Valle del Chiampo dopo la diluizione con le acque del torrente LEB. «Il problema grosso è l’agricoltura, le acque dei pozzi della nostra zona non hanno una mappatura e qualcuno potrebbe continuare a prendere acqua dal sottosuolo», ci dice Piergiorgio Boscagin di Legambiente Cologna Veneta.

A molti insomma non è bastata la relazione 2017 dell’Istituto Superiore della Sanità che in seguito a un monitoraggio a campione di alimenti ha dichiarato la necessità di intervenire solo sul pescato, certificando come trascurabile l’apporto della maggior parte dei prodotti alimentali all’esposizione a PFAS sulla base di dati nazionali sul consumo degli alimenti campionati. È infatti recentissima la nuova proroga di divieto di consumo di pesce pescato all’interno della zona rossa, che la stessa Regione Veneto ha prolungato fino al 31 dicembre 2020.

Coldiretti Verona si fida dei laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità e di fronte alla preoccupazione su un possibile contraccolpo del comparto agricolo a “km-zero”, ribadisce che “per la produzione vegetale non sussistono problemi con l’utilizzo di acqua conforme così come per l’abbeverata degli animali. Relativamente alla questione dei pozzi privati, è da 5 anni che i produttori e le industrie alimentari della zona rossa sono obbligati a fare analisi per verificare che non ci sia contaminazione. Per i pozzi privati ad uso domestico, va posta la stessa attenzione perché l’ultimo rapporto ISS dice che permangono livelli elevati di PFAS nelle persone che utilizzano quell’acqua”.

Comitati No PFAS, Legambiente, Medici per l’Ambiente e molti cittadini stanno aspettando una georeferenziazione precisa dei campioni di alimenti prelevati nonché l’integrazione dello studio sugli alimenti con dati reali. Come si evince dalla stessa relazione di ISS, infatti, “la stima dell’esposizione attraverso la dieta (il vero regime alimentare dei residenti, ndr) è attualmente in corso”. Il Sindacato Italiano Veterinari Medicina Pubblica Sivemp si esprime in modo ancora più pessimistico pubblicando un articolo in cui dice di non aspettarsi “indicazioni risolutive dal piano di campionamento alimenti 2017 – ancora non reso pubblico insieme alla valutazione da parte di EFSA. Questo, sia per la rappresentatività del campionamento rispetto alle sorgenti di contaminazione, alle pratiche agricole, agli andamenti climatici stagionali, sia per quanto riguarda i metodi di analisi utilizzati per la produzione dei dati […].”

De qualcossa bisogna pur morir! I Pfoa non si trovano solo a Verona, Vicenza e Padova. Dall’Agno sono arrivati al Fratta-Gorzone e poi nel Brenta fino agli allevamenti di molluschi di Chioggia. E non solo: anche il Piave e l’Adige portano con sé un po’ di quel veleno e il dottor Cordiano da tempo consiglia di evitare le sarde del lago di Garda, «se non volete fare un carico di PFAS e di altri interferenti endocrini».

I 3000 PFAS prodotti dall’uomo per pesticidi, insetticidi, detersivi, tessuti impermeabili, contenitori per alimenti, carta-forno, schiume anti-incendio sono ovunque, viaggiano con l’acqua, si fermano e si accumulano negli organismi. Eppure, in Italia non esistono ancora leggi nazionali che ne regolino la presenza negli scarichi industriali e nelle acque reflue, richiesta avanzata a più riprese sia dal Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, sia dal suo assessore all’Ambiente Gianpaolo Bottacin e oggetto di uno scontro recente con il 5Stelle in regione Manuel Brusco, il quale alle accuse di immobilismo rivolte al ministro per l’Ambiente Sergio Costa replica definendo sconvenienti le dichiarazioni di Bottacin e ricordando che il ministero dell’Ambiente si costituirà parte civile nel processo penale contro Miteni.

Non è solo l’Assessore Bottacin a chiedere interventi legislativi urgenti a livello statale. È infatti dello scorso 25 settembre il comunicato dei consiglieri regionali Cristina Guarda(CvP) e Andrea Zanoni (PD) che non lascia margine di scuse al ministro Costa: «Qua abbiamo la più grande contaminazione europea, se non mondiale, da PFAS. […] Può benissimo, con decretazione d‟urgenza, dare indicazioni sui limiti PFAS per le acque potabili, come fatto dal precedente esecutivo con il Decreto Genova, per innalzare la quantità di idrocarburi ammessi nei fanghi di depurazione da spargere sui terreni».

Oltre al fronte politico ci sono dubbi, paure e sfiducia. Nonostante il raddoppio dei filtri e in attesa dei nuovi acquedotti di Belfiore realizzati da Acque Veronesi, qualcuno sta riparlando di plasmaferesi (una pulizia del sangue, proposta inizialmente ad alcuni residenti della zona rossa ma poi bandita dall’allora ministra Beatrice Lorenzin). Recentemente, da oltre oceano, arriva anche la notizia di un batterio in grado di distruggere alcune sostanze PFAS. Il prossimo 20 ottobre a Venezia si terrà una grande manifestazione organizzata da comitati e associazioni per chiedere la bonifica del terreno sottostante l’ex fabbrica Miteni, terreno ancora pieno di inquinanti. Scienza e coscienza dovranno andare insieme e l’udienza Miteni del giorno successivo diventa per molti non tanto la conclusione bensì l’inizio di una lunga battaglia per chiedere equilibrio tra sviluppo economico, industria, agricoltura e salute.

Tratto da Verona In